Sbocci il fiore del partigiano morto per la libertà

Succede che ci son giorni in cui scrivi biografie di persone che c’erano, volti conosciuti, di cui non sapevi poi molto, perché erano anziani e non gli avevi parlato tanto, e che però erano presenza costante nelle occasioni di sempre, figure di cui si sentirà l’assenza, come una sagoma cancellata da una foto di gruppo: stride la mano che cancella presenze da questa vita come uno straccio che pulisce via il segno del tempo da un vetro, e il vuoto lascia i contorni di un disegno incompiuto.

In quei momenti, mentre la tastiera va quasi da sola nell’angusto spazio delle righe redazionali, mi accorgo di quanto mi è minuscola questa, di vita: e intendo la mia.

Faust, mi piace ricordarlo col suo nome da partigiano, l’8 settembre del 1943 non aveva vent’anni. Raggiunse la compagine dei garibaldini, che avevano base nelle colline degli avamposti orientali e che organizzavano la Resistenza pensando a Garibaldi: alla giubba rossa sostituirono un fazzoletto, ché di stoffa non ce n’era, e amplificarono le idee di unione e libertà, seguendo il grande sogno di vincere l’oppressione con la democrazia.

Un anno nella macchia, rimase poi ferito nell’agosto del 1944 sotto i tiri di un cecchino a S. Gervasio, vicino a Nimis.

Per un momento penso che non c’era anestesia, che non c’erano farmaci per togliere il dolore, e provo uno sgomento vivo solo immaginando il suo dolore.

Riparato a Faedis per curarsi, nel settembre del 1944 visse il drammatico incendio del paese da parte dei nazifascisti, riuscendo a salvarsi con i civili che fuggivano nei boschi e sulle colline, sotto le mitraglie che sparavano dal versante opposto, con la paura di morire che taglia le gambe e toglie il respiro.

Dopo la guerra, la violenza, la miseria e la fame, mancò anche il lavoro: fu emigrante con molti altri, e nel 1949 il viaggio della speranza era verso la Terra del Fuoco, dove il freddo durava un anno intero e la lingua straniera amplificava la fatica dei poveri.

Rientrò in Friuli con i risparmi per realizzare il sogno di sposare la fidanzata, che lo aspettava e gli diede due figli. Seguirono mattoni e cemento: muratore, come chi costruisce con l’incessante ricordo di aver visto case distrutte e bruciate.

E poi nel suo Friuli la terra tremò: sotto i piedi, il terremoto era il ricordo lontano della terra squassata dalle bombe di guerra.

Quel che seguì è una vita a tener vivo il ricordo della gioventù rubata, della sofferenza, del dramma di una guerra che abbruttisce e devasta: testimoniava con le sue riflessioni le idee di libertà e democrazia che avevano animato i partigiani della Zona Libera del Friuli Orientale, superando con grande forza di volontà anche il male che negli ultimi tempi lo affliggeva.

Osservatrice in disparte delle celebrazioni, di lui mi resterà la semplice e immancabile spontaneità delle sue parole e il lucido vigore con il quale esprimeva il bisogno di ricordare e rivendicare gli eventi storici contro ogni forma di revisionismo.

Sfinito di dolore, ha deciso di lasciare l’ospedale e di riposare per l’ultima volta a casa, perché era giunto il tempo di andare e il bagaglio di vita per la partenza lo teneva tutto a Faedis, e non in un’anonima stanza clinica. Aveva forse capito che il testimone che sentiva di dover passare era pronto per essere raccolto da chi deve continuare, ragionando con la propria testa, la sua lotta per il più bel sogno di libertà.

Ciao Faust: sulla tua memoria sbocci il fiore del partigiano morto per la libertà.

– Foto di Danilo De Marco –

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