Dixieland Chronicles #1 – New Orleans Nights

All good New Orleanians go to look at the Mississippi at least once a day. At night it is like creeping into a dark bedroom to look at a sleeping child–something of that sort–gives you the same warm nice feeling, I mean.

(S. Anderson)

Amo New Orleans.

È una Parigi creola con clima caraibico.

Città di maghi, di musica, di spezie, di spiriti.

Che gli Squirrel Nut Zippers scoperti a San Pietroburgo abbiano registrato qui un album, che io ci trovi Mucha appena salutato a Praga nei poster originali delle gallerie retró di Royal Street, che il Django Reinhardt adorato alla Kursaal di Scheveningen nel periodo del mio dorato esilio olandese sia ringraziato in ogni cd autoprodotto dalle band di strada che creano l’atmosfera gitana di New Orleans, è la sintesi epifanica (ormai disperata che invece sboccia inaspettata) di lunghi anni di ricerche e amori di nicchia, scoperti inseguendo segrete alchimie nei miei pellegrinaggi nomadi nella Mitteleuropa.

Ritrovo tutto dentro un immenso mosaico umano, artistico, profumato, musicale.

Un’ubriacatura che prende il petto, scende nel ventre e là trova il ritmo inebriante del cuore, la sua dimora pulsante.

Di giorno NOLA ha il fascino innocente di una località balneare con case di legno color pastello, profumo di Golfo e una leggera brezza marina.

Le case “haunted” non fanno paura, ma rimane sempre il dubbio che dietro le tende ci sia il fantasma di Jean Lafitte che cerca il prossimo bottino.

Ho trovato a Royal Street gli artisti che a Mont Martre non ci sono più, sopraffatti da saltimbanchi truffaldini che accalappiano con il gioco delle tre carte gli eserciti di nostalgici cercatori di tele.

I palazzi curvi che sembrano abbassarsi per guardare lo spettatore dell’atelier di Linda McCluskey al 54 di Rue de Rivoli sono reali nel quartiere francese di New Orleans. E le tele della coppia Calice e Pao esposti nella galleria di Royal emergono dalle pennellate attendendo le luci serali dei lampioni a gas.

La calda notte di New Orleans, nonostante ci si conceda i ricercati, squisiti e altrettanto costosi piatti al Doris Metropolitan, potrebbe concludersi con una certa delusione a Bourbon Street.

Entrando dalla Canal, la Bourbon accoglie con quel che appare come un ricordo naïf della “House of the Rising Sun”: non un bordello, ma un innocente sexy shop che di creolo non ha più nulla.

Per strada si è presto assaliti dalla ressa, da troppe collane di perle colorate da lanciare sulle querce del Garden District al Mardì Gras, dalle intermittenze di un violento odore di piscio e vomito che qua e là copre la frittura di French fries, da musica country, rock, hip hop, oppure blues, quando va bene.

Ma di ragtime non c’è brandello di nota, di ritmo.

È appena il caso di rifugiarsi nel piccolo e prezioso “Arnaud’s French 75 bar” per un Oaxacan cocktail e poi tornare a cercare, con lo sguardo liquido e mobile, quella New Orleans nascosta e voluttuosa che non si scorderà più.

Lasciata la calca a Bourbon, la magia voodoo si compie a Frenchmen Street, vivo scorcio sugli anni venti: affresco conservato intatto, nostalgico ricordo di un’era morbida e decadente.

La via si srotola in una serie di locali, di luci, di musica che celebra Satchmo e lo fa duettare con Django.

Un’invisibile Hushpuppy, regina delle terre selvagge del delta del Mississippi, ci accompagna ad assaggiare gli alligator bites, ubriacati in una salsa cajun, insieme alla Gumbo-yaya che sa di terra e di mare e alla Jambalaya di freschi shrimps.

Il Sazerac fa il resto, allungando la notte e rendendola leggera, tra le pale che ruotano sul soffitto facendo volare il caldo dei Caraibi.

Ce ne andiamo a dormire al mattino a braccetto come due Huck e Finn ormai cresciuti ma sempre dispettosi, approdati nel Ventunesimo secolo sognando una casa sull’albero.

Salutiamo l’immenso Mississippi, le luci che si allungano tremanti, allunghiamo un braccio ondeggiante verso l’ultimo battello notturno, che forse è il primo del mattino.

È come fare una carezza, concedere uno sguardo di dolce approvazione sul fiume che fa l’amore col mare.

(St. Louis Bay, 7 aprile 2015)