Guardare, già sazi, una finale di Champions (o del perché sono interista)

Schermata 2015-06-06 alle 14.20.11Necessario disclaimer preventivo: trattasi di sfottò.

Per gli amici juventini: sappiate che, comunque vada stasera, noi ci siamo arrivati prima!

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Sull’onda dell’emozionante triplete del 2010, sentii l’esigenza di fissare i ricordi, ripercorrendo 30 anni di fede calcistica senza soluzione di continuità.

Oggi dedico il post a tutti gli interisti. E’ bello, sapete, essere sazi: aver raggiunto prima degli altri (in Italia) la storica triplete ci fa rosicare di meno. Anzi, ci lascia molto rilassati nel guardare la partita stasera: cosa che, va detto, ha molto dell’atteggiamento di superiorità così tipico dello juventino. Non c’eravamo abituati: perciò, è un piccolo godimento postumo anche questo!

Buona lettura, buona partita e buoni ricordi a noi!

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È una dolce sera di Maggio. Il Maggio sportivamente più dolce che un interista abbia mai vissuto.
È miele, è iniezione di glucosio che gonfia le vene, ma senza rischio infarto, ché quello gli interisti lo provano ogni singolo secondo dei novanta minuti calcistici, quei novanta minuti delle partite che durano una vita e che non sai mai se basteranno. Perché con l’Inter non sei mai sicuro. È sorpresa, sofferenza, reazione, trionfo oppure abbattimento, struggimento, demolizione.
No, questa sera c’è solo il godimento puro del palato, movimento rallentato, sorriso beato, occhio lucido, schiocco di lingua.
E scelgo questa dolce, dolcissima, sera per sciogliere l’interrogativo che incuriosisce molti, i molti che mi hanno chiesto come mai io sia interista. A chi lo devo. Perché questa “fede” indistruttibile?
C’è un percorso netto che riesco a tracciare lucidamente per tappe.
1988/1989 – 2009/2010: una parabola ventennale che mi ha preso per mano bambina e mi ha accompagnato all’”età forte”, e che ha avuto come asse di riferimento i colori nerazzurri. C’è un momento preciso nel quale ho avuto la mia coscienza calcistica. Il momento nel quale il dono della fede interista è sbocciato in me.
1989: compivo dieci anni, di lì a poco i muri sarebbero caduti, e Ceaucescu morto ammazzato. Chi l’avrebbe detto allora, nel “piccolo compendio del -mio- universo”, che poi la Romania mi sarebbe entrata nel cuore e nella mente, esattamente venti anni dopo?
Ma allora, nel 1989, io ero una bimba vivace, in un paese di soli maschietti coetanei, che qualche volta lasciava le Barbie per andare a giocare al pallone nel prato oltre il torrente, se possibile saltellando tra i sassi, quando non cascando in acqua. Ero una bambina che una volta almeno rovinò le scarpe da ginnastica nuove nuove, per essere quindi sonoramente sgridata dalla mamma al ritorno da un match (pure vittorioso).
I pomeriggi allora erano i compiti, le letture dalla biblioteca di classe e fare a gara a chi leggeva più libri. Bim Bum Bam non lo vedevo, perché da me Mediaset non aveva ancora bucato lo scorcio di cielo tra le mie colline. Allora c’erano solo i canali Rai. La “Melevisione” fu inventata più tardi, ma l’invasione della troupe televisiva di Mr. B. arrivò comunque in tempo per farmi innamorare, come Yu, di Toshio, che invece era innamorato di Creamy. L’amore era difficile e impossibile già al tempo dei cartoni animati.
Ma il 1989 è stato, prima di tutto, l’indelebile anno dello scudetto dei record: quello del Trap. Il 13mo, storico, scudetto.
Mio padre quella stagione riprese la moda che usò con mia mamma all’epoca del loro fidanzamento. Uscivano per cinema e pizza. Allora l’ordine era invertito, perché si andava a dormire prima. Ogni sabato lui la corteggiava portandola al cinema e poi offrendole la pizza per infine (quanta pazienza ci vuole con le donne) accompagnarla a casa nella storica Cinquecento bianca. Essendo lei di famiglia juventina, per correggerle il “difetto” mio padre le insegnò la formazione delle stelle, quelle che aveva ammirato a Milano durante i suoi venti anni magrissimi e poveri. Oltremodo innamorata, lei vinse la ragione di famiglia per pronunciare, dall’alto della sua bella figura, la “Poesia in movimento”: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez e Corso.
Adesso anche io li conosco, quei versi della Grande Inter del Mago Herrera, ma prima di avere una coscienza storica, sperimentai la coscienza del presente.
Era il tempo della mia formazione, l’unica imparata a memoria e mai più scordata, come al catechismo l’Ave Maria e il Padre Nostro e quei Sette vizi capitali che come i Sette nani non ci sono mai tutti.
La domenica mattina si divertiva a insegnarmi i nomi di improbabili re fenici (tutta colpa della Mostra storica sui Fenici che i miei mi portarono a vedere a Palazzo Grassi a Venezia proprio nel 1988). Tra gli altri c’erano, in ordine cronologico, Assurnasirpal, Assurbanipal e Tiglatpileser: immagino mio padre ridesse per l’irrazionale sforzo al quale mi sottoponeva (e che io eseguivo per sentirmi dire che era tutto giusto, verificando poi dalla brochure della mostra). Il pomeriggio era invece il turno della formazione dell’Inter. Evidentemente, c’era qualcosa che doveva arrivare a una svolta, nel 1989. Nell’Inter e, di conseguenza, in me.
La insegnò a me, la formazione, non a mia madre (che aveva la sua, allora inarrivabile), non a mia sorella, di sei anni più grande, anche perchè probabilmente lei si sarebbe ribellata.
Io lo trovavo divertente. Perciò: Zenga, Bergomi, Brehme, Matteoli, Ferri, Mandorlini, Bianchi, Berti, Diaz, Matthaus, Serena.
Scanditi ogni domenica, quegli omini avevano un nome che corrispondeva a un numero che corrispondeva a un ruolo: non come adesso, perché la rosa dei giocatori e il cambio delle strategie dei moduli non consente più di assegnare un numero a un ruolo. Questa è l’epoca della relatività calcistica.
Quei nomi correvano sul prato verde con la voce di Paolo Valenti a fare da cornice al 90° Minuto e alla mia danza davanti allo schermo quando partiva lo stacchetto musicale, preludio dell’attesa della sintesi dei goal dell’Inter: quelli ovviamente erano gli ultimi della serie. Prima ci si doveva sorbire la zona retrocessione, la zona grigia di metà classifica, e, sofferenza atroce (per imitazione dello stato d’animo di papà) lo stuolo delle rivali bianconere (il nemico numero uno, tanto che papà prese a segnarsi su un foglietto gelosamente custodito gli episodi a favore della Juve), rossonere (Mr B. aveva comprato da due anni la rivale cittadina – il dio interista esiste, perché ha voluto, per mia somma fortuna, che Mr B. abbandonasse le iniziali mire sull’Inter), giallorosse (che pure simpaticamente approvo, anche perché hanno un inno speciale. Non è il nostro, ritmato, irresistibile, pieno di assolute ovvietà da bar sport, ma “Grazie Roma” di Venditti ha il suo perché).
Poi quell’anno li vidi davvero, i giocatori: nella trasferta a Udine, fuori dall’Hotel Boschetti. Un nugolo di interisti stava lì fuori ad aspettare che i nostri facessero una passeggiata la mattina delle partita.
Uscì il Trap. Io avevo foglio e penna, ma non ci arrivavo. Mio padre allora prese il cuore in mano, mise la mano sulla spalla di Trapattoni e gli disse: “Trap, per cortesia”. E lui ci guardò: me, mia sorella e mio papà, e firmò il foglietto. Una bella firma, leggibile, non il solito scarabocchio…
La casacca aveva come sponsor “Misura”, quella dei dolcificanti e della pasta integrale. Non è escluso che qualche volta, quell’anno, abbiamo mangiato la pasta integrale Misura e usato il dolcificante, non si sa bene per quale imprecisata esigenza dietetica…

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L’interista in procinto di vincere raggiunge livelli di preoccupante scaramanzia. Quell’inverno mio padre notò una strana coincidenza: se non si tagliava la barba, l’Inter vinceva.
Diventò il rito domenicale: nonostante le proteste di mia madre, il giorno di riposo il rasoio era off limits.
Sennonché, domenica 12 febbraio 1989, il caso volle che ci fosse la celebrazione per S. Valentino, protettore della comunità (per fortuna che è il santo dell’amore: a pensarci col senno di poi, valutati i danni, pare una barzelletta).
Ospite d’onore era la maestra Marisa, la mia maestra elementare, molto amata in paese. Veniva per il Santo, perché aveva un figlio di nome Valentino.
Sicché, quel giorno non ci furono invece santi per mio padre: rasarsi fu ordine da eseguire senza possibilità di appello.
Con il malessere di chi è scaramantico e sa che sta disturbando gli dei che pretendono invece ossequiosi e ripetitivi riti, mio padre eseguì.
Ovviamente, Fiorentina-Inter fu l’unica partita della stagione che l’Inter perse: finì 4-3.
Immaginate la felicità in famiglia quando papà, al ritorno dalla festa, accese finalmente la radiolina (il televideo non c’era ancora) e sentì il risultato…
La storica galoppata si concluse con cinque giornate d’anticipo: Inter-Napoli per entrare nella storia.
I miei erano in gita con i donatori di sangue del circolo: il pomeriggio io e mia sorella ascoltammo la partita e gioimmo. E registrammo (non ricordo se ci riuscimmo) con un primo VHS (marca Nordmende, quella me la ricordo ancora) il 90° Minuto per papà.
Gli anni che seguirono sono il ricordo delle gite fuori porta e mio padre con la radiolina che portava all’orecchio, di tanto in tanto e senza disturbare, per un fugace aggiornamento. E le domande di quelli che ci venivano incontro e che, poiché dotati di mogli proibizioniste che non consentivano l’uso della radiolina in pubblico, si avvicinavano per chiedere cosa faceva l’Udinese, cosa faceva il Milan, la Juve, ecc.
Quando chiedevano il risultato dell’Inter era fantastico: quello era un nostro fratello!
Appena si allontanava seguiva il mio appagato commento: “E’ dell’Inter come noi!”.
Ho fatto poi in tempo a crescere, a prendere la licenza media, il diploma scientifico e poi pure la laurea.
Ma nessuno scudetto.
Cominciò il walzer di allenatori, giocatori, tecnici. L’Inter fu messa in vendita.
Ho un ricordo nebuloso. Qualche nome di giocatore. Qualche allenatore, ma nulla più.
Finché nel 1995, al tramonto dell’era Pellegrini, Ligabue, al cospetto di Dio, chiese per tutti noi interisti: “Che tu sia un Angelo o un Diavolo, ho tre domande per te”. “Chi prende l’Inter?” era la prima domanda.
E la risposta arrivò colma di sogno: Massimo Moratti.
Moratti presidente: il figliolo come il padre, per inseguire campionati e coppe.
Passò Elio e le storie tese con la sua Ti amo campionato, nella quale si narrano gli episodi a favore della Juve (“ad esempio…”).
E Simoni, amatissimo da mio padre, che perse lo scudetto su un rigore negato a Ronaldo che fece segnare Del Piero.
Ci andammo vicino nel 2002. Terribilmente vicino.
Il 5 maggio 2002. Tre sul divano di casa: mio padre, io e il fidanzato che, da tifoso dell’Udinese, avevo convertito al culto dei colori del cielo e della notte.
Sul 3-2 per la Lazio mio padre se ne uscì di casa e rientrò tardi, ancora affranto dopo una passeggiata nei boschi. Io rimasi a vedere Ronaldo in lacrime. Immagine indelebile. Piansi incredula, inconsolabile.
Il mio fidanzato mi portò al Cinema Ferroviario a vedere “Sunday Bloody Sunday” di Paul Greengrass. Sembrava scelto con puntuale cura masochista. Riprese con telecamera a spalla, avevo la consapevolezza che la nausea derivasse da altro malessere, quando, riemergendo dal dramma narrato nel film, rivivevo la terribile scena del goal di Simeone. Nostro ex, che ci punì non si sa bene perché, con Materazzi che chiedeva la ragione di tanto accanimento, perchè proprio lui –quando era giocatore del Perugia – aveva consentito alla Lazio di scavalcare la Juve all’ultima giornata di campionato. Intanto, la Juve vinceva a Udine (cioè a casa mia) contro, come la definì Michele Serra nel lamento in memoria dell’Inter su Repubblica il giorno successivo, “un’arrendevole succursale bianconera”.
E per di più con uno smacco universitario: il prof. di diritto civile ci aveva per tempo professato a lezione la sua fede juventina e comunicato (quasi come un guanto di sfida) l’acquisto del biglietto per la partita Udinese-Juve per vedere la Juve vincere lo scudetto.
Sarà per quello che il diritto civile è ancora oggi la mia bestia nera…
Che altro ricordo? Anni di analisi. Mania di persecuzione, consapevolezza di avere ragione e di vedere gli altri sghignazzare.
L’ingresso all’Inter club dove non sai come sarai accettato la prima volta: perché donna e perché sei nuovo e potresti portare sfiga. Ma niente da fare. Non si vinceva, nemmeno nel pub della Guinnes e del Tucano.
Sì, certo, la UEFA: unico Cartizze stappato a livello europeo.

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Il mondo si è ricomposto una sera di giugno del 2006.
Studiavo per gli esami alla Scuola di Specializzazione a Padova. Un periodo intenso. Guido Rossi (che conoscevo per aver studiato qualcosa di suo a diritto commerciale ma non certo per la fede interista) si comportò come uno psichiatra che dice al suo paziente: “era tutto vero. C’era un complotto contro di te. Non sei malato. Non c’è nessuna mania di persecuzione. Ora alzati, cammina e vinci”.
Il 2006 è un altro anno di svolta: guarigione psicologica, scudetto ricucito là dove doveva stare, la media più alta alla SSPL, il Mondiale vinto con Materazzi, le prime prove come giurista, il fidanzato che avevo sognato (salvo poi svegliarmi dal sogno), la Juve in B e l’Inter a restare l’unica squadra mai retrocessa (questo elenco non è in rigoroso ordine d’importanza…).
Di lì a seguire è stato tutto in discesa: la felice scia degli scudetti, sempre al cardiopalma (18 Maggio 2008, Ibrahimovic che entra e ci salva a Parma).
Per arrivare allo storico 2010.
La cavalcata in Champions corona una stagione indimenticabile, dolcissima, romantica tanto da essere succosamente melensa.
Il divano questa volta è quello di casa di mia sorella.
Quando non si riesce a vedere la partita e capita di essere fuori assieme, c’è il telefonino con la radio. Lei lo ha voluto per una ragione precisa: se è fuori casa, deve poter sapere che cosa fa l’Inter.
Così capita che, in occasione dello shopping pasquale, siamo assieme a Cividale. Entriamo nel negozio di intimo, io vado a provare in cabina e lei, con elegante nonchalance, scosta la tendina e bisbiglia: Milito.
Ok, l’Inter è avanti. Siano lodati i cellulari muniti di auricolare che ci consentono di esultare a un solo sguardo anche mentre proviamo i vestiti, mantenendo intatta la nostra femminilità.
Intanto, arriva il Barça e l’Inter fa la partita storica: vince 3-1 a S. Siro. Quella sera il mio ex storico (quello convertito al culto interista) mi manda anche un mms da S. Siro con la foto della curva nord con la scritta “Madrid andiamoci insieme” (che diventa il mio sfondo nel desktop del portatile): l’ho stravolto al punto che continua a frequentare l’Inter club e a seguire la squadra fino a Milano. Ho fatto un buon lavoro, va detto.
Questo Maggio 2010 comincia in crescendo: Coppa Italia Roma-Inter (goal di Milito); Scudetto n. 18 Siena-Inter (goal di Milito) quando si temeva il peggio.
Fino al 22 Maggio 2010: Finale di Champions League al Bernabéu. La vigilia, il 21, è la giornata in cui perdo sei anni di vita tecnologica perché mi cade l’hard disk esterno, andando in pezzi.
Tabula rasa. Ma domani c’è la Champions, che allevia lo schock. Poi vedrò che fare: è un crescendo concitato di impevisti. E anche di possibilità!
Mia sorella sviluppa l’idea di fare il giro a Milano. Il dubbio è dilaniante: vederla con papà, colui che ci ha trasmesso il gene interista, o seguire il richiamo del cuore nerazzurro e raggiungere i nostri simili in piazza Duomo, per un’incredibile inondazione di emozioni straripanti?
La voglia di raggiungere gli amici milanesi che affettuosamente ci offrono ospitalità è senza misura. Quasi cediamo, siamo in zona stazione per i biglietti e poi, guardandoci negli occhi, vince, su tutto, la voglia di vederla assieme, assieme a papà, perché sennò non sarebbe storica e memorabile, quarantacinque anni dopo la sua ultima Coppa Campioni. Perché dobbiamo condividere e non importa dove, ma con chi. Come sempre e come tutto.
La location allora è quella standard: divano di mia sorella. Ma non c’è più scaramanzia.
Non ci sono riti. La bandiera la portiamo appresso dalla vittoria contro il Chelsea.
E poi in aumento fino alla serata della finale: rispolveriamo quella comprata da papà poco più che ventenne a S. Siro, quando non aveva abbastanza soldi per comprarsi il biglietto ed entrava allo stadio quando aprivano il cancello, per vedersi gli ultimi venti minuti della partita.
Anno 1965-1966: la vedi che è scritta a mano e poi stampata. Non come quelle di adesso, tutte perfette col design fatto al computer. E si comincia.
Inter-Bayern: Milito-Milito. Urlo, fischio, sfogo. Ci siamo bevuti l’Europa con due goal che sono uno più bello dell’altro. Abbiamo anche stretto i denti, ma sembrava incredibilmente facile…
Girotondo noi tre. Foto felice con la tripletta! Cartizze, Prosecco, oplà!
Siamo noi, siamo noi!
Il resto è noi due a fare da pilota (io) e copilota (mia sorella, con bandierone fuori dal finestrino) che allora sì possiamo andare a festeggiare con i nostri simili: strombazzando con l’Inno a tutto volume, è il battesimo interista della Yaris. Finché incontriamo altri simili e la gioia si mescola, si confonde e si moltiplica: come i baci di Catullo alla sua Lesbia, che questa sera sono per la nostra Pazza, Pazza Inter.
Questa dolcissima sera di Maggio vedo un ventennio di Inter che ha fatto un cerchio: un ciclo perfetto che si chiude. L’apoteosi raggiunta con un allenatore unico, intelligente, sprezzante, sicuro e semplicemente bellissimo. Che è stato nostro. Ne siamo innamorati: ci ubriacheremo di disperazione per il suo addio ma aspetteremo il prossimo, per dargli tutta la nostra fiducia.
Non ha importanza se arriverà il declino. La ruota gira. Ora abbiamo avuto tutto, abbiamo avuto il meglio. Tutto assieme. Quello che altri non hanno mai fatto.
Solo l’Inter, solo l’Inter.


EXPO 2015 #2 – La mia EXPO

Ecco i padiglioni visitati ad Expo 2015, in ordine rigorosamente sparso. Potete cominciare il percorso da qualsiasi entrata: ricordatevi che la Terra è rotonda, quindi non c’è un inizio né una fine.

slovakia1) Slovacchia – Il mondo in tasca

Lungo viaggio, colazione in autogrill: impossibile rinunciare al trdelník dolce, caldo e profumato cucinato fuori dal padiglione mentre scatto qualche foto alle gigantografie delle teste di Franz Xaver Messerschmidt. Il primo padiglione, scelto a caso, mi dà immediatamente la dimensione della ricchezza artistica e creativa che aleggerà per tutto il sito espositivo. La Slovacchia si merita il primo “wow” e capisco che il livello è, da subito, elevatissimo. Un uovo d’oro, un uccello realizzato con gli strumenti di lavoro dei contadini, un albero di flauti. Sembra la biennale d’arte.

Tenete a mente questo padiglione quando, a forza di foto, avrete il telefonino scarico: ci sono delle poltroncine accanto a un pilone dell’energia dove potrete ricaricare gli strumenti mentre riposate.

2) Russia – Crescere per il mondo. Coltivare per il futurorussia elementi

E’ praticamente impossibile resistere alla tentazione del selfie a naso in su puntando al megaspecchio che tende verso il cielo.

Fatevi mettere il timbro all’ingresso e poi pronti al viaggio: si passa attraverso una pesante tenda che sembra quella di un cinema ed eccovi due megaschermi e una musica grandiosa che accompagna la proiezione degli elementi della grande Madre Russia.

Il primo padiglione è fatto di fotografie retroilluminate di tutte le erbe spontanee che crescono in Russia: se vi avvicinate, troverete anche il nome in latino, e in ciò risiede il messaggio universale, a tutti intelligibile, che ci viene dalla storia, da una lingua che è stata veicolo di civiltà.

russiaAl centro del primo salone trovate beute, becco bunsen, alambicchi in una luce chimica, reazioni in corso: ci stiamo avvicinando al grande Dmitrij Ivanovič Mendeleev. Sarà perché me lo chiese il commissario esterno all’esame di terza media, ma io il papà della tavola degli elementi me lo ricordo e lo rispetto.

Al piano superiore un omaggio artistico alle donne: le ragazze nel campo di Kazimir Malevich echeggiano tra le opere esposte, omaggio a una immensa potenzialità rurale, che si candida a essere granaio del mondo.

USA3) Stati Uniti – American Food 2.0: Uniti per Nutrire il Pianeta

Vi diranno che il padiglione USA è deludente. E’ perché non hanno sintonizzato la modalità ricettiva del messaggio su un Paese che unisce la potenza alla semplicità facendole trasmettere al Presidente Obama, che vi riceve appena salite le scale, comunicandovi la prontezza dell’America nell’accettare la sfida per la sicurezza alimentare in tutto il mondo.

Siete entrati in un granaio, dove una bella hostess si avvicina e vi fa notare l’orto verticale: 42 tipi di ortaggi ricoprono su pannelli in movimento la superficie esterna del padiglione. Hanno portato i semi dagli Stati Uniti, mi spiega, li hanno coltivati in uno spazio apposito a 20 km da Milano, poi li hanno posizionati in verticale: li raccolgono ogni giorno, li cambiano ogni 30.

Ecco: a questo punto è chiaro che senza ascoltare le guide a disposizione non si può capire il senso di tutti gli stand. Concedete il vostro tempo a chi si è lungamente preparato per questo padiglione che coniuga trasparenza, colture e modernità.

Il percorso video al piano terra è rapido, semplice, per tutti: vi prende poco tempo, piacerà anche ai piccoli. Gli americani sanno che il tempo di tutti è prezioso: quindi sono rapidi e immediati nella sintesi.

Poi non perdete l’occasione di passare allo spazio dedicato alla Food Truck Nation: hanno la lobster roll a 16 euro. Aragosta, dico. Se è troppo, concedetevi almeno un brownie.

Schermata 2015-06-02 alle 17.48.494) Cluster Zone aride – Eritrea, Gibuti, Giordania, Liberia, Mali, Mauritania, Palestina, Senegal, Somalia.

Cluster in cui è immediata la percezione delle capacità e possibilità ridotte di investimento.

Si lotta contro la desertificazione: in Giordania la sabbia diventa arte che riempie bottigliette di vetro, creando forme e paesaggi di incredibile precisione.

La Palestina offre l’olio e un panorama su tutte le tre grandi religioni che possono convivere: i simboli sono raffigurati da ulivi intagliati che hanno le radici nella stessa, identica, terra.

In Senegal si possono acquistare i prodotti della Sooretul: una startup di Dakar che vende prodotti tradizionali sfruttando le potenzialità del web.

L’Eritrea mostra un aratro a buoi attuale: rispetto al trattore dell’area della New Holland Agricolture è timido, ma ha la resistenza data dall’apprezzamento di anche una sola goccia d’acqua.

C’è lavoro da fare, anche nei padiglioni: questi Paesi vogliono esserci, partecipare, mettendoci volontà e saggia tenacia.

5) Cluster Isole mare e cibo – Caricom (Barbados, Belize, Dominica, Grenada, Guyana, Saint Vincent e Grenadine, Saint Lucia, Suriname), Comore, Corea del Nord, Guinea Bissau, Madagascar, Maldive

Parliamo di luoghi di una bellezza struggente: le foto non rendono del tutto giustizia a questi Paesi dalle condizioni eterogenee. Oggettistica e prodotti locali fanno da contorno a un mondo dall’alimentazione essenziale e sana.

6) Giappone – Diversità armoniosaSchermata 2015-06-02 alle 17.50.32

Mettetevi in coda e abbiate pazienza: il segreto è che si va più veloci di quanto dica il minaccioso messaggio sui minuti di coda all’ingresso. Affronterete un percorso a tappe in cui sarete guidati alla perfezione e che vi stupirà con effetti speciali prima di portarvi alla sintesi: il Giappone è tecnologia e tradizione e vi presenta il ristorante del futuro, in cui pietanze che rispettano il ciclo delle stagioni terrestri sono presentate in maniera efficiente e innovativa, conservando però la purezza dei prodotti.

Schermata 2015-06-02 alle 17.02.32Alla fine lo spettacolino cantato potrebbe far pensare a un intrattenimento da parco giochi: no, siete in Giappone e vi trovate davanti a una coppia in perfetto stile manga. Manca il karaoke, poi sarebbe perfetto.

Alla conclusione della visita trovate il ristorante oppure il fast food: deliziosa la tempura sul riso accompagnata dalla zuppa di miso. Piatto abbondante: l’opzione combo con una birra porta il conto a 25 euro. Data l’elevata qualità, la rapidità del servizio, il personale che vi spiega cosa state mangiando e la gentilezza di tutto lo staff, saranno soldi ben spesi.

uk7) Regno Unito – Coltivato in Gran Bretagna, condiviso globalmente

Sarete l’Ape Maya, vivrete l’esperienza di volare tra un prato di margherite e papaveri (sapientemente realizzato ad altezza dei vostri occhi, così vedrete cosa vede un’ape che vola rasoterra) e sarete guidati dentro un alveare.

Il padiglione inglese sceglie un tema unico e lo rende con una struttura architettonica che alla sera si illumina ed è ancora più sorprendente: le api, ecosistema organizzato e instancabile, si stanno estinguendo.

Vi sentirete per un momento Fabre, l’entomologo da cui trasse ispirazione Darwin ma che rifiutò le teorie evoluzioniste di quest’ultimo: gli inglesi mettono in campo brillantezza, estro e genio architettonico e ci catturano con un’idea unica, che riflette un mondo intero.

8) Francia – Produrre e nutrire diversamentefrancia

Una sorta di labirinto vi porta a una grotta, nella quale sono conservati i tesori alimentari di un Paese che della cultura culinaria ha saputo fare la propria bandiera. Mettetevi con il naso all’insù e aprite bene le narici: sarete accolti dal caldo profumo di un panificio con baguette appena sfornate. Continuate con il naso all’insù: la Francia, colline ondulate e morbida eleganza, vi mostra tutti i prodotti esponendoli in un percorso che esprime la ricerca di autosufficienza, nuovi modelli alimentari, quantità e qualità.

Nella bottega in fondo potrete assaggiare quel che avete visto nel percorso. Io ho ceduto ai macarons: di varie dimensioni e prezzi, io ho speso 10 euro per un cestino da 6, ma sono “quelli veri”, diffidate delle imitazioni!

Schermata 2015-06-02 alle 18.17.139) Paesi Bassi – Condividere, crescere, vivere

Alla sera, quando gli altri stand chiudono e avete voglia di festa (il clima è quello di un festival globale), fermatevi in Olanda.

Per averci vissuto e per aver passato il periodo di ricerca, studio, lavoro più felice della mia vita (non pensate alle droghe! In Olanda si vive bene anche senza!), tutto quel che è olandese a me piace a prescindere e lo trovo originale: qui si punta alla qualità della vita.

All’ingresso Troverete due mucche immerse con le zampe nell’acqua: una terra che lotta con l’acqua sa che, per poter sopravvivere, lo sforzo collettivo è la soluzione per il futuro.

Il prato, tipico della terra “piatta”, fa da base a un luna park con ruota panoramica: si passa tempo assieme, si cresce assieme, insieme si migliora la vita.

Potete bere una birra, assaggiare il formaggio gouda che viene offerto in assaggio con salsine al tartufo, piccante o dolce e portarvi a casa i mitici stroopwafel.

A me ha messo una gioiosa nostalgia dei bei tempi all’Aja e della grande festa per il compleanno arancione della regina.

giumenta10) Kazakhstan – La terra dell’opportunità

Che Astana avesse preso il volo dopo un grande slancio lo sapevo già, grazie a un amico politologo, ma che questo sia lo stand più bello in assoluto è stata proprio una sorpresa.Schermata 2015-06-02 alle 18.20.21

E’ imperdibile, nonostante la coda, anzi, nonostante gli italiani in coda, che riescono a dare il peggio di sé in maniera imbarazzante nel violare le regole dell’attesa e indispettendo i rigorosi kazaki.

Farete un viaggio nel nono Paese più grande al mondo per estensione: dalla storia al futuro, il percorso guidato si snoda fluido in un unico brivido emotivo.

Vi faranno assaggiare il latte di giumenta: acido e quasi frizzante al palato, dalle proprietà incredibilmente benefiche.

Sul filmato in 3D non vi rovino la sorpresa: vi dico solo che io mi sono commossa, per la bellezza, ricchezza e lo splendore di questo Paese.

Ricco anche il ristorante in uscita: per chi può e vuole, c’è anche il caviale del pregiatissimo storione beluga.

Viene voglia di andarci e visitare il Kazakhstan in occasione di Expo 2017, che sarà realizzato proprio ad Astana.

11) Corea del Sud – Sei ciò che mangicorea padiglione

I koreani sono potenti. E spietati: aver visto tanti loro film al Far East Film Festival mi ha preparata all’esposizione di Milano.

Subito la proiezione di un uomo pingue ai raggi x che cammina pesante (sensi di colpa alle stelle) e poi quella di un bambino che scava in terra e ci guarda, quasi a dire: hai finito tutto, sì? Non rimane nulla?

Si passa poi alla tecnologia estrema, avveniristica, che non dimentica la tradizione e le rende omaggio: lo spettacolo di luci celebra il “vaso luna”, un tradizionale vaso di ceramica che ricorda la forma della luna piena utilizzato per la conservazione degli alimenti.

La Corea insegna ad ascoltare il proprio corpo, a notare i segnali che ci manda, a rispettare i tempi, ad avere la pazienza per la necessaria fermentazione e quindi la conservazione dei cibi e del patrimonio alimentare.corea

Al termine il negozio è elegantissimo e con prezzi accessibili per i prodotti pregiati.

Potete poi scegliere tra un ristorante oppure un fast food: assaggiate quantomeno le alghe secche e bevete il drink fresco all’aloe, promosso al primo posto del mio personalissimo podio di migliore bevanda di Expo 2015.

12) Cina – Terra di speranza, cibo per la vita

cinaL’arrivo al padiglione è guidato da una breve e gradevole passeggiata in un prato di fiori color arancio, che ricorda il frumento maturo. La struttura dell’immenso palazzo è di bambù e racchiude i quattro temi scelti dalla Cina per il tema di Expo 2015: cielo, uomo, terra, armonia. Il baco da seta che fila lunghi eleganti tessuti e gli ombrellini appesi annunciano un padiglione che non dimentica la tradizione, pur approdando alla tecnologia estrema: una grande foresta di bambù con un apice di led, che, illuminati e osservati dalla terrazza del primo piano, rendono l’effetto di un’immensa coltura (di grano, di riso), che sfama 1,3 miliardi di persone e si candida tra gli Stati che possono offrire spunti e soluzioni per l’obiettivo “zero hunger”.

In uscita, profumo di ristorante cinese e involtini primavera a 2 euro.

anogola api13) Angola Cibo e Cultura, Educare per Innovare

La vera, grande scoperta di Expo 2015. La grandezza del padiglione annuncia un’esposizione di altissimo livello.

L’Angola è un paese giovane: la sua autonomia dal Portogallo (del quale conserva però la lingua nazionale) ha poco più di 40 anni, la guerra civile è storia recente, che ha compromesso lungamente i terreni coltivabili.

E giovane e con gli occhi scintillanti è il ragazzo che ci guida alla scoperta del suo Paese: elegante, entusiasta della sua terra, in un italiano perfetto ci raccoglie vicino a un alveare di legno e paglia, inizia raccontando del miele, sfiora un riferimento alle guerre recenti, passa al baobab, quindi ai piatti preparati col catato (un insetto commestibile e ricco di proteine che lui preferisce a un’aragosta, confessa), per arrivare all’anacardo (vi prenderà in giro ricordandovi che da noi arriva solo la parte finale, il seme, mentre il frutto è di gran lunga più buono). Quando finalmente le dogane sbloccheranno i carichi di prodotti angolani, il ristorante, già ottimo, vi offrirà tutto tra un mesetto circa.

Per ora accontentavi delle preparazioni da godere sulla terrazza oppure le proposte al bar del piano terra, dove almeno una lattina Blue di Guaranà e di maracuja vi restituiranno una piccola percentuale dell’esplosione di sapori di questo Stato tutto da scoprire.

“L’Angola ha mare e montagne: splendidi paesaggi e meravigliose potenzialità”. Soffre di nostalgia, la giovane guida, si sente.angola

Sfiora l’aneddoto dicendo di “una nonna morta a 106 anni con tutti i suoi denti in bocca, mentre io ho cominciato ad avere la carie quando sono arrivato in Italia” e proponendo la Coca Cola alternativa, come fanno a casa sua: “prendete i semi di cola, bicarbonato, zolletta di zucchero e si mescola. L’Africa ha tutto – conclude – , ma da noi i ragazzi non hanno i soldi per comprare la Coca Cola, perciò se la fanno da soli”.

Ecco: l’Africa ha tutto, e noi glielo portiamo via.

14) Argentina – L’Argentina ti nutreargentina

Potrebbe sembrare semplice: al primo piano si è accolti da un marchingegno meccanico che rappresenta omini di legno con in mano una valigia che scorrono su un percorso infinito, forse a simboleggiare le migrazioni – incessanti e incessabili – dell’uomo sulla Terra, intorno fotografie di migranti, quindi pannelli che riproducono l’immagine del mare. In realtà anche l’Argentina centra il tema dell’Expo 2015 allestendo con grande impegno quattro aree tematiche: l’Argentina nutre i suoi cittadini, nutre il mondo, nutre la conoscenza, nutre il dibattito.

Il padiglione offre anche musica e degustazioni al piano terra: è la terra del tango, dell’asado, dei vini.

Ristorante affollatissimo alla sera: ma, come per tutte le proposte, se è la vostra prima scelta sappiate che ogni coda vale l’attesa.

nepal15) Nepal – Sicurezza alimentare e sostenibilità per lo sviluppo

Il Nepal commuove per la bellezza della struttura purtroppo spoglia: l’esigenza, adesso, è altrove e noi, di fronte a un pannello che spiega la scelta del tema espositiva e tace – dignitosamente – sul perché dell’incompletezza, non possiamo che dare quantomeno un contributo economico e sperare che il padiglione possa presto spiccare tra gli altri per la sua meraviglia architettonica.

caffè16) Cluster caffè – Burundi, El Salvador, Etiopia, Guatemala, Kenya, Repubblica Dominicana, Ruanda, Timor Est, Uganda, Yemen

Imperdibili le foto di Salgado allestite da Illy: il lungimirante e impegnato guru del caffè ha fatto un bel lavoro, ma, per chi come me già conosce e apprezza il prodotto della mia regione, è più emozionante sedersi sugli sgabelli dell’Etiopia assieme a una donna che, in religioso silenzio ed elegante compostezza nei suoi abiti coloratissimi, vi versa in bicchierini di ceramica un caffè dal sapore diverso, esotico, sognante.

p.s. la mostra fotografica “Profumo di sogno” con gli scatti di Salgado si può visitare a Venezia fino al 27 settembre 2015 alla Fondazione Bevilacqua La Masa.

cacao17) Cluster cioccolato – Camerun, Costa d’Avorio, Cuba, Gabon, Ghana, Sao Tomé e Principe

Ammetto di aver ceduto: faceva caldo, erano le quattro di pomeriggio, desideravo una cosa fresca e mi son presa un cono gelato allo stand dell’italiana Pernigotti. Il cioccolato veniva da Sao Tomé e Principe e da Santo Domingo.

Un omaggio si deve dare alla pianta che ci regala il cibo degli dei: il cacao, nostro Signore del godimento.

Non saltate Cuba: è di casa qui e propone un’infinita serie di rum.

Per i golosi, il negozio è un trionfo di prelibatezze.

18) Afghanistan – Alimenti per la longevità, Afghanistan sorprendentemente reale

Il padiglione è inserito nel Cluster delle Spezie: lo zafferano è presentato come un gioiello; del resto, ha il colore dell’oro.

Ottimo il thè allo zafferano e il dolce alla crema di zafferano e pistacchi: finalmente soluzioni alternative al lombardissimo riso giallo!

19) Chile – El amor de Chile

Neruda gronda dal motto “perché in questo mondo tutte le cose parlano d’amore”.

Ho potuto fare solo un giro al negozio, perché era tardi: ma come si fa a resistere a certi succhi di frutta fatti da uva Shyraz, dallo Sauvignon, oppure al maqui (super frutta antiossidante), al mango? Ho riempito l’ultimo spazio che avevo nello zaino.

20) Bio-Mediterraneo

Sfiorato in chiusura, purtroppo: la sete porta verso l’enoteca siciliana, perché un passito fresco in una notte calda ti rimette in pace anche col tuo Paese dopo il giro del Mondo.

padiglione zero21) Padiglione Zero

Rispetto al mio ingresso, lo splendido Padiglione Zero era in fondo, ma poco importa: il messaggio vale sia come introduzione che come sintesi del percorso di Expo 2015.

Zero come “zero hunger”, “zero fame”: sfida e obiettivo delle Nazioni Unite, consentire a tutti un’adeguata alimentazione, energia e motore della vita, del progresso.

Allestito in maniera intelligente e curata: la biblioteca dei saperi è fantastica, incute rispetto e riverenza immediata. Abbiamo un patrimonio che solo se condiviso può essere conservato, alimentato e progressivamente migliorato.

Semi, piante, animali, evoluzione, città, sprechi e rifiuti. Il rapporto dell’uomo con l’alimentazione si snoda, in saloni mai didattici o scontati, fin dal principio: dalla nascita dell’agricoltura e della pastorizia, fino alle quotazioni borsistiche dei prezzi degli alimenti e al loro paradossale spreco.

L’immenso albero di 23 metri è un calco eccezionalmente realistico, che sfonda il tetto ed esce a prendere la luce.

Fa riflettere, questo padiglione, e se lascia qualcosa significa che Expo 2015 è andato oltre la sfida, cogliendo nel segno, come seme per i frutti delle menti future.


EXPO 2015 #1 – In difesa dell’EXPO

Schermata 2015-06-02 alle 17.07.09Colui che non si preoccupa di quello che mangia non saprà preoccuparsi di nient’altro.

(S. Johnson)

***

Tre considerazioni su quel che penso di chi critica e snobba l’Expo, soprattutto senza averla vista, prima di parlare della mia Expo.

Numero Uno.

“All’Expo non vado perché dietro questo evento c’è corruzione, interessi, malaffare, sfruttamento, iniquità”.

Se questa è la misura con cui decidete i luoghi da frequentare quando uscite di casa, allora molto probabilmente non dovreste andare al lavoro, perché il palazzo nel quale entrate ogni giorno potrebbe essere stato oggetto di qualche mazzetta; non dovreste portare i figli a scuola, né mandarli all’Università, perché lì dentro è probabile che ci sia un giro di interessi, di concorsi truccati, di privilegi.

Non solo, magari la vostra stessa casa porta segni di mala gestio del pubblico interesse.

Ma qui la colpa, infame e, laddove accertata, da punire senza esitazione, è del costume, non certo dell’evento.

Insomma, ci sono cose che l’uomo rovina (se italiano, gli viene anche meglio, è vero), ma la loro bellezza e importanza resta, in valore assoluto, immutabile, imprescindibile, non criticabile: tra queste vanno collocate il sapere, il lavoro, la cultura, l’alimentazione, i luoghi in cui gli umani si incontrano e si esprimono, in una sana competizione, che va dallo sport all’esibizione delle potenzialità tecniche e scientifiche, che tende al miglioramento delle sorti collettive.

Numero Due.

Diceva Samuel Johnson che “colui che non si preoccupa di quello che mangia non saprà preoccuparsi di nient’altro”. Abbiamo in casa una Expo che parla del bisogno più naturale di tutti: l’alimentazione, cioè la nostra fonte di energia.

L’alimentazione è imprescindibile, necessaria, ci accomuna a tutti gli altri umani: è per questo un bisogno da soddisfare, un diritto da tutelare, un dovere a cui prestare la massima attenzione, cura, studio, rispetto, curiosità.

Expo 2015 è dedicata a un tema che è straordinariamente vicino, accessibile, immediato. Non si deve essere ingegneri, artisti, architetti, né tantomeno chef. Si deve, però, essere obbligatoriamente curiosi. Chi non si preoccupa di avvicinarsi al più grande evento sull’alimentazione mondiale, non saprà preoccuparsi di null’altro: l’alimentazione è la nostra energia, è vita. Senza quella, non si parte.

Numero Tre.

Expo 2015 è esposizione, e fin qui basterebbe guardare ciò che ci mostrano, ma è anche esperienza che implica coinvolgimento dei sensi: si guarda, si ascolta, si annusa, si tocca, si assaggia.

Dall’esperienza si conosce, si arricchisce il sapere, si alimenta l’ingegno, si nutre l’intelligenza.

Il condimento essenziale della visita è la curiosità, e ce la dovete mettere voi: molto sarete aiutati dai creativi che hanno allestito i padiglioni, ma molto dovrete chiedere a voi stessi. Fatevi, e soprattutto fate, domande: incontrerete persone preparate, disponibili, desiderose di presentarvi la propria terra, esotica o a noi più vicina, comunque interessante e ricca delle più strabilianti e sconosciute (a noi) ricchezze.

Non restate sulla superficie e non cambiate padiglione come si cambia canale: il viaggio è, prima di tutto, impegno e crescita mentale.

Il risultato – garantito – sarà una stanchezza appagante, mista alla consapevolezza concreta e reale di abitare un pianeta incredibilmente ricco, da proteggere ad ogni costo.

Informazioni e consigli di base.

L’area è enorme – oserei dire grandiosa – e sgombero subito il campo da facili semplificazioni negative: non chiedetemi “che cosa salto?”.

Schermata 2015-06-02 alle 17.25.29Non c’è nulla di superfluo, nulla che può essere depennato con noncuranza: anche nei padiglioni più semplici, meno elaborati, meno ricchi, meno avveniristici, potrete intercettare un segnale, un elemento, uno spunto di riflessione. Anche di imbarazzo, se volete, per lo squilibrio che peserete con padiglioni ipertecnologici: questo sbilanciamento deve essere necessariamente riponderato e ricalibrato.

Mi sono stupita (per la mia ingenua ignoranza) a cercare di capire uno strumento che si è rivelato un aratro per buoi (attualmente in uso) nel Cluster delle Zone aride, come mi sono stupita sulle sedie della sala 3D del Kazakhstan (io che prima di Expo non ero mai stata in un cinema 3D).

Ogni Stato ha scelto di dare una propria interpretazione al tema: qualcuno ha proposto un unico argomento; altri richiedono la vostra attenzione su più aspetti; alcuni puntano sull’impatto emotivo; altri evocano viaggi in terre esotiche; altri ancora sono incompleti e noi facciamo il tifo perché possano concludere gli allestimenti prima possibile.

Schermata 2015-06-02 alle 17.25.00Più tempo avrete a disposizione, più completa e ricca sarà la vostra esperienza: perciò, pianificate due giorni. Altrimenti dovrete tornarci, garantito.

Il consiglio è quello del gitante tipico: scarpe comode, vestiti a strati, zainetto in spalla, che vi servirà per portare a casa tutte le cose per le quali sentirete l’esigenza di condivisione con qualcuno al vostro rientro, per diluire e drenare le emozioni della visita.

L’area si gira facilmente: il cardo e il decumano (adoro chi ha chiamato così le due principali vie!) sono ampi viali e il pubblico defluisce agevolmente.

Schermata 2015-06-02 alle 17.25.35E’ tutto pulitissimo: non c’è una cartina a terra, i raccoglitori dei rifiuti (inclusa la differenziata) sono frequenti e vengono svuotati così da evitare ammassamenti sgradevoli; ci sono tantissimi bagni, puliti e sempre forniti di tutto (sapone, carta, ecc.).

C’è il wi-fi e ci sono zone per ricaricare la batteria. Ci sono spazi per sedervi e riposare, anche all’ombra. C’è molta sicurezza in divisa per i padiglioni. Insomma: chi ha organizzato sa che ci starete parecchie ore e ha fatto in modo che vi troviate a vostro agio.

Non si mangia gratis, ma non sarete derubati.

Non spaventatevi dalle voci messe in giro sui prezzi: è vero che ci sono ristoranti nei quali ci si siede e si paga di più (o parecchio), com’è vero che ci sono offerte accessibili a tutti che offrono preparazioni accurate, raffinate, di ottimo livello. Ho pranzato, saziandomi con 25 euro, in Giappone e ho cenato con 13 euro in Korea del Sud. Nel mezzo, dolci e bevande dall’Afghanistan all’Angola, all’Etiopia, al Chile, alla Francia.

Potete cominciare la visita da qualsiasi entrata: ricordatevi che la Terra è rotonda, quindi non c’è un inizio né una fine.

Recuperate il passaporto dell’Expo e riempitelo dei timbri dei Paesi visitati. Vi servirà, all’uscita, per rifare il percorso con la vostra memoria emotiva.

***

Faccio ancora un appello, e non sarà l’ultimo, agli indifferenti.

Expo 2015 in Italia è uno di quegli eventi che non si può né si deve ignorare: non andando ad Expo 2015 non solo saprete molte meno cose che, col senno di poi, ritengo insopportabile non conoscere, ma sappiate anche che, rifiutando questa possibilità, amerete la Terra, questa magnificenza estrema, con meno emozione e trasporto di chi, invece, ci andrà.

E adesso vi accompagno nel mio viaggio, raccontando i padiglioni che ho, per ora, visitato: cliccate qui.


Dixieland Chronicles #1 – New Orleans Nights

All good New Orleanians go to look at the Mississippi at least once a day. At night it is like creeping into a dark bedroom to look at a sleeping child–something of that sort–gives you the same warm nice feeling, I mean.

(S. Anderson)

Amo New Orleans.

È una Parigi creola con clima caraibico.

Città di maghi, di musica, di spezie, di spiriti.

Che gli Squirrel Nut Zippers scoperti a San Pietroburgo abbiano registrato qui un album, che io ci trovi Mucha appena salutato a Praga nei poster originali delle gallerie retró di Royal Street, che il Django Reinhardt adorato alla Kursaal di Scheveningen nel periodo del mio dorato esilio olandese sia ringraziato in ogni cd autoprodotto dalle band di strada che creano l’atmosfera gitana di New Orleans, è la sintesi epifanica (ormai disperata che invece sboccia inaspettata) di lunghi anni di ricerche e amori di nicchia, scoperti inseguendo segrete alchimie nei miei pellegrinaggi nomadi nella Mitteleuropa.

Ritrovo tutto dentro un immenso mosaico umano, artistico, profumato, musicale.

Un’ubriacatura che prende il petto, scende nel ventre e là trova il ritmo inebriante del cuore, la sua dimora pulsante.

Di giorno NOLA ha il fascino innocente di una località balneare con case di legno color pastello, profumo di Golfo e una leggera brezza marina.

Le case “haunted” non fanno paura, ma rimane sempre il dubbio che dietro le tende ci sia il fantasma di Jean Lafitte che cerca il prossimo bottino.

Ho trovato a Royal Street gli artisti che a Mont Martre non ci sono più, sopraffatti da saltimbanchi truffaldini che accalappiano con il gioco delle tre carte gli eserciti di nostalgici cercatori di tele.

I palazzi curvi che sembrano abbassarsi per guardare lo spettatore dell’atelier di Linda McCluskey al 54 di Rue de Rivoli sono reali nel quartiere francese di New Orleans. E le tele della coppia Calice e Pao esposti nella galleria di Royal emergono dalle pennellate attendendo le luci serali dei lampioni a gas.

La calda notte di New Orleans, nonostante ci si conceda i ricercati, squisiti e altrettanto costosi piatti al Doris Metropolitan, potrebbe concludersi con una certa delusione a Bourbon Street.

Entrando dalla Canal, la Bourbon accoglie con quel che appare come un ricordo naïf della “House of the Rising Sun”: non un bordello, ma un innocente sexy shop che di creolo non ha più nulla.

Per strada si è presto assaliti dalla ressa, da troppe collane di perle colorate da lanciare sulle querce del Garden District al Mardì Gras, dalle intermittenze di un violento odore di piscio e vomito che qua e là copre la frittura di French fries, da musica country, rock, hip hop, oppure blues, quando va bene.

Ma di ragtime non c’è brandello di nota, di ritmo.

È appena il caso di rifugiarsi nel piccolo e prezioso “Arnaud’s French 75 bar” per un Oaxacan cocktail e poi tornare a cercare, con lo sguardo liquido e mobile, quella New Orleans nascosta e voluttuosa che non si scorderà più.

Lasciata la calca a Bourbon, la magia voodoo si compie a Frenchmen Street, vivo scorcio sugli anni venti: affresco conservato intatto, nostalgico ricordo di un’era morbida e decadente.

La via si srotola in una serie di locali, di luci, di musica che celebra Satchmo e lo fa duettare con Django.

Un’invisibile Hushpuppy, regina delle terre selvagge del delta del Mississippi, ci accompagna ad assaggiare gli alligator bites, ubriacati in una salsa cajun, insieme alla Gumbo-yaya che sa di terra e di mare e alla Jambalaya di freschi shrimps.

Il Sazerac fa il resto, allungando la notte e rendendola leggera, tra le pale che ruotano sul soffitto facendo volare il caldo dei Caraibi.

Ce ne andiamo a dormire al mattino a braccetto come due Huck e Finn ormai cresciuti ma sempre dispettosi, approdati nel Ventunesimo secolo sognando una casa sull’albero.

Salutiamo l’immenso Mississippi, le luci che si allungano tremanti, allunghiamo un braccio ondeggiante verso l’ultimo battello notturno, che forse è il primo del mattino.

È come fare una carezza, concedere uno sguardo di dolce approvazione sul fiume che fa l’amore col mare.

(St. Louis Bay, 7 aprile 2015)


Vento, Vukojebina e Slivovice

(foto Corbi da La Pecora Nera)

(foto Corbi da La Pecora Nera)

Notte da lupi: pioggia a rovesci e vento forte, che si infila fischiando tra le fessure dei muri e delle finestre di casa.

Un gatto solitario che cercava riparo si è impossessato della mia sedia a dondolo in terrazzo.

L’avrei lasciato fare, se non mi fosse scappato un urlo scomposto vedendo la creatura sconosciuta muoversi mentre le passavo accanto, cercando non so più cosa: è sparito volando per le scale, tuffato in giardino, per andare a nascondersi sotto chissà quale altro tetto.

Notte inquieta: è il vento, chiama forte.

Si dice che Rebecca West, durante i viaggi che le fornirono il materiale per la sua monumentale opera sui Balcani, sia stata affascinata dal termine vukojebina, che viene usato per indicare un posto remoto, desolato, impervio.

Letteralmente, la vukojebina è il riparo nel quale i lupi si ritirano per accoppiarsi.

E vukojebina è anche il nome che ha il mio rifugio per la notte, al riparo dal vento forte, dal mondo: un avamposto selvaggio, impervio e isolato, ma sicuro.

Mi devo svegliare prima dell’alba; ultimi segni sulle mappe, ultime note sui libri, ultimo sguardo agli appunti.

C’è un viaggio verso Est, per andare a incontrare l’altra mia identità: la Slivovice, che tutto comprende.

Perché per esser slave dentro si deve saper amare i lupi, aspettare con ansia il vento forte che soffia sul Ponte del Diavolo ed essere donne di spirito.


Dancing with Maria, regia di Ivan Gergolet

Schermata 2015-03-01 alle 17.41.43Se ascolti il ritmo della pioggia, non è sempre uguale.

Può essere veloce, o più lento. Tic, tic, tic-tic-tic.

La pioggia entra nella terra e le dà il ritmo.

Su quella terra, leggera come una piuma, si muove l’argentina Maria Fux, sperimentatrice, pioniera, avanguardista della danzaterapia, ancora oggi attiva docente all’età di 93 anni, pasionaria, ma solo per il fiore (pasionaria in spagnolo è termine che può indicare diversi fiori) che porta sullo chignon, unico indizio che tradisce le sue origini di ballerina classica, rigorosamente sgargiante e in tinta con l’abito: a contraddistinguerla, infatti, sono la delicatezza dei gesti, la scelta misurata delle parole e uno sguardo empatico, indulgente, sull’umanità che riempie il mondo.

All’altro capo dello stesso mondo, nell’atmosfera nostalgica della mitteleuropa che ancora aleggia su Trieste, c’è Martina Serban, oggi psicologa, da sempre danzatrice.

Me la ricordo con uno spesso cappotto di lana, i capelli color porpora sciolti sulle spalle, gli occhi di un turchese ipnotizzante, i movimenti delicati, un sorriso ampio: allora, quando eravamo adulti in potenza, i giorni trascorrevano noiosi tra i banchi del liceo, tra letture, versioni di latino e derivati. Passata metà della nostra vita, ritrovo sullo schermo la stessa chioma porpora e lo stesso sguardo turchese, che ora riconosco empatico come quello di Maria: è lei, Martina, la scintilla dello splendido documentario che è valso al regista Ivan Gergolet, suo marito, il premio Civitas Vitae nella selezione della 29.ma Settimana Internazionale della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia.

Partendo dall’idea di conservare un ricordo dei loro giorni argentini mentre Martina frequentava l’“estudio” di Maria Fux a Buenos Aires, Ivan Gergolet regala alla moglie (e a noi) uno scrigno che contiene il prezioso e profondo insegnamento di Maria: ci accompagna in punta di piedi nelle stanze del laboratorio di danza, ci offre il caleidoscopio delle sue giornate, ricostruisce per noi la sua storia, ricercando tra super-8 e ritagli di giornali dimenticati le tappe di una donna eclettica e instancabile.

“Yo comienzo”, dice Maria, quasi impaziente, proprio all’inizio del film: sa che il tempo a disposizione si riduce sempre di più e vuole salutare con un buongiorno la vita che le ha offerto “molto, qualcosa, poco e niente”.

Maria introduce gli allievi alla consapevolezza del proprio corpo, al superamento dei propri limiti attraverso la percezione interiore della musica, del ritmo e del movimento.

Nel laboratorio di Maria non solo sono tutti benvenuti, ma tutti “vuelven”, tornano, perché tutti possono danzare: chi si muove in stampelle, chi non può vedere, chi ha in più quel cromosoma che lo dota di grande affettività, chi addirittura non può sentire la musica, ma può sperimentarne il ritmo attraverso il quale toccare armoniosamente l’aria, lo spazio, il tempo.

Non c’è la pretesa di guarire una patologia che la medicina ha scientificamente classificato: chi conosce i propri limiti impara però a dialogare interiormente, trovando così una forza e una nuova possibilità espressiva.

Su quel parquet del palazzo dell’Avenida Callao, Maria e Martina sono i due volti del Maestro e dell’Allievo: necessitano uno dell’altro, si arricchiscono reciprocamente, si completano a vicenda. Il film è una riuscita sintesi della poesia, dell’armonia che Maria Fux ha cercato, raggiunto e trasmesso a generazioni di danzatori che l’hanno incontrata.

“Immagina un filo che parte dalla tua testa, che ti fa alzare e camminare dritto su questa linea”, mi dicevano i fisioterapisti quando ho appoggiato le stampelle e ho cominciato a muovermi (di nuovo) da sola nello spazio. Quel filo non c’è nella realtà: la mente però lo vede con la forza che ha dentro, e quella forza solleva il corpo e lo invita al movimento. E il corpo va.

L’esperienza attraverso cui Gergolet ci porta, filtrata dai racconti degli allievi di Maria, è accompagnata dalle musiche intime di Luca Ciut, giovane compositore giuliano: il suo colpo di genio sta tutto nel costruire una delicata melodia su movimenti di riprese già complete, con lo scopo di accompagnare lo spettatore nella crescita che ha maturato chi le ha realmente vissute.

La splendida colonna sonora realizzata da Ciut (disponibile sul sito personale del musicista) dice quel che le parole spesso non riescono a raccontare.

Racconta Maria:

Nell’autunno del 1942, guardando un albero in autunno e una foglia cadere decisi di fare quel tipo di danza.

Ma quando cercai una musica adatta, non la trovai.

Allora chiesi alla foglia d’autunno: “Hai bisogno della musica per muoverti?”

La foglia rispose: “No, ho bisogno del vento”.

I nostri movimenti uniscono il tempo trascorso, quello attuale, il futuro: noi danziamo ogni giorno la vita, al ritmo del vento.

Disegnandolo sui suoi spartiti, Ciut lo sente, lo vede, lo ascolta e ne propone il delicato afflato.


Si tratta di scegliere tra due vaffanculo – The Grand Budapest Hotel vs Boyhood

Tutto sta nello scegliere tra due “vaffanculo”.

Schermata 2015-02-16 alle 22.54.15 “What’s the meaning of this shit?” – The Grand Budapest Hotel

Adoro Schiele (ma non ho un quadro in camera come “Tutte le ragazze con una certa cultura”), e adoro Wes Anderson.

“The Grand Budapest Hotel” è un grande, immenso, volo di fantasia: una fiaba come un bon bon di pasta di zucchero. Profumata con la migliore colonia, curata, dettagliata, elegante, raffinata.

La pellicola mi è piaciuta così tanto che l’ho pure vista due volte.

Il cast è eccezionale: Norton, Fiennes, Murray, Keitel, Law, Dafoe, Brody, Wilkinson (ritrovarlo nei panni del buon Zero anziano mi ha confuso dopo essermi abituata al Dar Adal di “Homeland”). Sono tutti accorsi per un cameo, per un contributo al gioiellino immerso negli anni Trenta di una località di montagna che parrebbe tanto essere Svizzera ma che in realtà si trova nel cuore di una Mitteleuropa perduta (il nome dell’Hotel richiama lo splendore magiaro, una fetta di torta esterhazy, se non la nobile famiglia tutta).

C’è neve, ci sono saune rilassanti, cure, delicatezze e riposo. Humor mescolato a un noir d’autore. C’è un concierge devoto e premuroso. Un avvocato, la polizia, musei, dita tagliate, tele, arte.

C’è una follia che avanza e imperversa con modi ruvidi, volgari, irrispettosi, scuri, voraci e ingordi di denaro e che ammantandosi di un simbolo a doppio fulmine ricorda tanto l’orribile doppia S.

Ma è una tela spezzata a dare la cifra del male. E’ un quadro che, perdendo il confronto con l’inesistente Van Hoytl (preferito dal colto e raffinato Monsieur Gustave H.), rimane al Castello, per essere schiantato da Adrien Brody (“und Taxis”) perché Schiele con le sue inconfondibili pennellate nodose ha la colpa di aver dipinto una scena lesbo, che viene liquidata con un gesto iconoclasta e una bestemmia: “What’s the meaning of this shit?”.

Schermata 2015-02-16 alle 23.02.19

“Come on, man! Turn this shit off!”- Boyhood

Amo Linklater, e a Vienna e Parigi ci sono andata dopo aver accuratamente ripassato i suoi “Prima dell’alba” e “Prima del tramonto”.

Sarà destino che ora mi porti nel Sud dell’America facendo la magia con “Boyhood”: l’incantesimo è fatto di intimità, colonna sonora (le sue sono sempre speciali, ho cercato per anni “Come here” di Kath Bloom, e adesso ho già “Hero” sull’ipod), delicata empatia dello sguardo sulla vita, gli errori, le scelte, la comprensione, gli incoraggiamenti, le delusioni e le lotte che accomunano il percorso di tutti gli adolescenti dell’impero occidentale.

La professoressa che dice “floss” al giovane Mason che sta per partire per il college mi ha trafitta: citazione del “Sunscreen Speech” di cui non mi sarò accorta solo io. E non intendo quello di The Big Kahuna, ma quello vero di Mary Schmich sul Chicago Tribune, che guarda caso scoprii durante i miei mesi felici da expat PhD student in Olanda.

E nel film c’è tutto sull’istruzione americana (community college, in-state or out-of state tuition, veterans, perspective students, international!).

C’è Britney Spears, il Game Boy, il Mac, Harry Potter, Twilight. E pure un omaggio a “The mocking bird” che più Sud di così non c’è.

Ma sopra ogni cosa c’è quel “Come on, man! Turn this shit off!” sulla scena di un film dell’orrore.

Per un momento ho pensato a “The Blair Witch Project”: Hawke (fedelissimo a Linklater e in odore di un Oscar che sarebbe meritatissimo) torna a casa coi figli e ci trova l’amico sul divano davanti alla tv che restituisce immagini di uno scantinato sconnesso filmate da una telecamera a spalla e urla disperate di una donna che sta morendo ammazzata. Non sono sicura che sia una scena di quel film, ma considerati gli anni potrebbe anche esserlo. “Avanti, amico: spegni questa merda!” mi libera dal trauma orribile nel quale sono caduta dopo aver visto “The Blair Witch Project” al cinema.

Non sono andata nel bosco dietro casa per mesi. E non nego di ripensarci ogni volta che, attraversando un bosco o una pineta durante le mie camminate, mi capita di trovare rami disposti in forme che potrebbero sembrare figure: non le tocco.

***

Ecco, le due espressioni sono come due vaffanculo: violento e distruttivo il primo, deciso e protettivo il secondo.

Da un vaffanculo ignorante e cattivo urlato in un castello buio di un posto immaginario dell’est, terra alla quale sono peraltro emotivamente e geograficamente legata, a quello maturo e liberatorio dell’America, di sole e di musica.

E niente, si tratta di scegliere se ricevere o dare un vaffanculo; ma non è poi così difficile: la TV si spegne, i profili facebook si possono oscurare, perché c’è tutto un mondo colorato da vedere.


Monte Joanes – avamposto innevato di nordest

Da bambina ero convinta che il Monte Joanes prendesse il nome dal mio nonno bis Giovanni, perché lui aveva superato i 100 anni.
Noi bis-nipoti attorno a lui percepivamo a malapena la magia della sua vita, ma ne sentivamo l’autorevolezza e provavamo rispetto per un uomo giusto e buono.
Oggi il Monte Joanes, ultimo avamposto del confine a nordest, è per me il Monte dei ricordi. Da lì si vede la mia valle, e il disegno più ampio del Friuli che si mescola con la Slovenia e arriva fino all’Austria.
Il mio è un abbraccio fatto di sguardi, immersi nel silenzio della neve, serpeggianti su sentieri nascosti tra i pini e confusi nel diorama di tracce di caprioli e lepri. 100 anni fa per Giovanni, allora mio coetaneo, era l’istantanea di un impero che stava andando follemente verso un’incomprensibile volontà di autodistruzione.


Di neve e di ghiaccio: brindate sereni!

neveSulla dura cresta di un rialzo di neve

verso la tua bianca, segreta casa,

procediamo in silenzio,

così tranquilli, tutti e due.

Più dolce di ogni canto che ho intonato

è per me questo sogno che si avvera:

il vibrare dei rami che sfioriamo

e il suono lieve dei tuoi speroni.

– Anna Achmatova, gennaio 1917 –

C’è tutto in questa fine d’anno: la neve, un cowboy coi suoi speroni, l’est vicino.

I rami che mi sfiorano quando attraverso correndo i sentieri di campagna; il vento che passa dalla porta di Postumia; il suo sibilo che intona la jazz suite di Shostakovich.

Dolci al pan di zenzero, regali americani, storie di guerra e fame. Ricette per la cena del veglione. Dettagli che son più importanti dell’insieme.

Una nuova tranquillità interiore, che è forza e consapevolezza.

E’ affetto, ed è fermezza.

Ho le scarpe da ginnastica ai piedi per l’ultima corsa del 2014: il sole è radente e le montagne son bianche come pandoro davanti a me.

Applaudo al 2014 per scaldarmi le mani dentro i guanti, due salti, faccio partire il cronometro e vado.

Quanto a voi, alla mezzanotte ricordatevi di brindare, qualunque cosa pensiate di questo anno che muore: siate leggeri, avrete bevuto un buon sorso. Alla vostra, alla mia.

Ci rivediamo di là: buon 2015 a tutti!


Oh Happy Day – La Slivovice corre a Praga.

Schermata 2014-12-19 alle 21.12.46In ufficio il collega addetto alla musica mette play su “Oh Happy Day”.
Giorno di paga.
Giorno di tredicesima.
Giorno di festa con gingerbread e magnum di bolle, con i complimenti di tutti.

Ho impastato e decorato biscotti notturni, usando stampini americani e profumando la casa di zenzero, cannella, noce moscata e chiodi di garofano.

Ho imparato a fare la ghiaccia reale: di notte, nulla sembra così facile come decorare biscotti fragranti che sanno di altri mondi.

Nella cucina calda, dopo aver dato la pastiglia alla lavastoviglie perché non le venga il mal di testa a forza di terrine, teglie e mestoli, cucchiai.

Un Natale che arriva leggero e al giusto ritmo, finalmente senza affanno: regali di Natale già tutti comprati. In America.
E tornata a casa, dopo aver aperto la busta dell’Agenzia delle Entrate che mi manda un bel rimborso atteso da due anni, vuoi non festeggiare con 10 km di corsa?

Serve per rilassarmi e perché è cominciato il conto alla rovescia. Da oggi è deciso: ho il mio pettorale per la mezza maratona di Praga.
Stasera faccio anche l’albero di Natale, promesso: con le mie belle matrioske; del resto, sono una ragazza della Mitteleuropa.

E non vedo l’ora, cercando Kafka, rapita dalla magia raccontata da Ripellino, correndo lungo la Moldava e ascoltando col cuore gli archi struggenti di Smetana, di chiedere a Kundera una volta per tutte: «versami un’altra slivovice ».