Gli anni Cinquanta tra cioccolatini, figurine e un pallone (con gli occhi di un bambino)

ImageHo una foto di mio padre in calzoni corti con bretelle, scarpe di stoffa, calze alle ginocchia, riga nei capelli scuri; era così magro da fare impressione: occhi fuori dalle orbite (neri e aperti, curiosi); le ginocchia (che sono anche le mie) sporgenti, le gambe che fanno un archetto (che è anche il mio). Avete mai fatto caso che nelle foto in bianco e nero scattate fino alla metà del secolo scorso i bambini non ridono? Erano infelici? Avevano fame? Erano solamente impauriti davanti alla macchina fotografica (un grosso marchingegno di legno, vetro e un panno nero di stoffa, dietro al quale il fotografo nascondeva il capo e si preparava per il dagherrotipo)? Forse, tutte le cose assieme.

Alle elementari si andava in paese: le prime classi al mattino, i più grandi al pomeriggio, ché la maestra era una sola. Poi, finite le elementari, si sceglieva tra avviamento e scuole medie (il ’68 non c’era ancora stato, e l’avviamento mandava tutti alle scuole superiori “professionali”). Quello era il tempo in cui si inforcava la bicicletta e si macinavano chilometri per raggiungere la città più vicina: pioggia o sole, neve, ghiaccio o nebbia, si arrivava all’incrocio con la prima strada importante e si aspettavano gli altri, che arrivavano da un paese più lontano. Ad ogni incrocio si aggiungevano nuovi gruppi. Un fiume di giovani di belle speranze a pedalare su strade bianche, a farsi la guerra, a fumare le prime sigarette, a fare i primi goffi complimenti alle ragazze e … a raggiungere la scuola, che doveva dare un mestiere e un lavoro più dignitoso di quello che la terra offriva.

La maestra arrivava lunedì mattina in bicicletta dalle Valli del Natisone e si fermava tutta la settimana. La maestra Totolo: il suo nome è nei ricordi di tutti quelli che erano piccoli negli anni ’50. Si portava un po’ di legna a testa d’inverno e l’inchiostro era nel calamaio. I primi mesi delle elementari erano un quaderno a quadretti e tante linee e sbarre. Poi, si imparava a leggere e a far di conto. E si imparavano a memoria tante poesie. Però, nei pomeriggi, si giocava al pallone. E il calcio era già allora il sogno dei bambini (guardate le immagini scattate nei Paesi poveri, oppure guardate i piccoli che sono pronti a lavarvi i vetri al prossimo semaforo: indossano una maglietta di una stella del calcio). E già si collezionavano le figurine dei campioni, quelle che si trovavano dentro i cioccolatini della Ferrero: se completavi l’Album e lo riportavi a chi ti aveva venduto i cioccolatini, ti regalavano un pallone. Un vero pallone di cuoio! Che valeva più delle scarpe di stoffa che avevi per giocarci (guardate le immagini dei bambini nei Paesi del Terzo Mondo: giocano scalzi, ma rincorrono il pallone con totale spensieratezza).

I cioccolatini si trovavano solo alla Cooperativa sociale, che faceva da bar, telefono pubblico, balera e salotto: solo lì c’era la possibilità di ascoltare le musiche dai juke-box e guardare, alla sera, la tv tutti assieme.

Mio padre, ultimo di otto tra fratelli e sorelle, non poteva permettersi di acquistare i cioccolatini, però assieme agli altri ci stava: e li guardava scartare il gianduiotto, e infilare distrattamente il cioccolatino in bocca perché l’attenzione era tutta per la figurina; mentre aprivano la confezione, lui li guardava in viso: coglieva immediatamente lo sguardo di felicità o delusione a seconda che la figurina fosse una di quelle non ancora trovate o un doppione. Sì, perché la reazione, per lui, era esattamente l’opposto: se la figurina era un doppione, gli amici gliela avrebbero passata, sennò se la sarebbero tenuta per sé tutti soddisfatti e sarebbero corsi presto a incollarla all’Album.

Quando c’era il doppione (e superato anche lo scoglio degli scambi di figurine tra collezionisti), la figurina era finalmente sua e poteva anche lui correre a incollarla al suo Album, inseguendo il sogno di un pallone di cuoio che diventava sempre più vero man mano che i buchi si riempivano.

Poi, c’era il caso del doppione dei doppioni: Giovanni Molino. La figurina di Molino, difensore granata, era la più diffusa: Molino era il vincitore dei doppioni, e quindi l’incubo dei collezionisti.

E c’era invece il ricercato per definizione: Horst Buhtz. Il centrocampista tedesco, anche lui torinese, era assolutamente introvabile. Insomma, in questa zona il distributore aveva deciso che i cioccolatini con la figurina di Buhtz dovevano allungare all’infinito il completamento dell’Album, e con esso il sogno del pallone di cuoio.

Trovare Buhtz voleva dire conquistare il pallone: qualche fortunato ci riusciva, e così si poteva giocare a calcio nei prati tutti assieme.

Alla fine, arrivò anche il doppione di Buhtz: quando ormai tutti gli altri bambini avevano completato l’Album e ottenuto il pallone in cambio, anche mio padre riuscì a incollare quell’ultima figurina. Quasi riesco a immaginare il bambino di quella fotografia, tutto intento a riempire, con la precisione che lo contraddistingue ancora, e con il cuore gonfio per l’emozione di una così lunga attesa, quell’ultimo spazio vuoto: l’ultimo passo verso un vero pallone di cuoio!

Quando si presentò alla Cooperativa con l’Album sotto il braccio per consegnarlo e avere in cambio il premio, la locandiera, verificato con gesto solenne la completezza della raccolta (immaginate mio padre piccolo, dall’altra parte del bancone, che attende con ansia l’ultimo esame), compilò il tagliando con i suoi dati assieme a una cedola, spiegandogli che avrebbe dovuto ripresentarla al momento della consegna del pallone (che sarebbe arrivato alla Cooperativa qualche tempo dopo). Quando gliela porse, si abbassò sul banco, lo guardò (immagino con compassione mista a simpatia) e gli disse: “Certo, A., che tu non mi hai mai comprato un cioccolatino!”.

Poco male: il pallone arrivò! Finalmente, un pallone di cuoio vero! Mio padre lo conservò gelosamente e con cura: al pomeriggio giocava con gli altri bambini (con i palloni degli altri bambini) e alla sera tornava a casa, prendeva il suo e andava a tirargli quattro calci da solo. Aveva bisogno di cullare ancora un po’ quel sogno tanto a lungo irrealizzato: giocava calciando il pallone contro un muro, oppure lo rincorreva in dribbling inventati, o improvvisando un palleggio di piedi o di testa. Ma quel pallone era solo suo: lo avrebbe conservato più a lungo degli altri.

I palloni degli altri, infatti, si consumavano e si bucavano: a turno, ciascuno portava il proprio, sapendo che poi anche quello si sarebbe rovinato.

Mio padre riuscì a conservare il suo pallone fino alla “fine” di tutti gli altri palloni: solo quando anche l’ultimo pallone “amico” si bucò, andò (forse, immagino io, un po’ a malincuore…) a raccattare il suo per giocare con gli altri.

Anche il suo pallone seguì la stessa sorte: si bucò e rovinò non si sa più quando; ma il sacrificio di quel pallone forse valeva più di quello degli altri, perché quello fu l’unico Album che mio padre completò.


5 commenti on “Gli anni Cinquanta tra cioccolatini, figurine e un pallone (con gli occhi di un bambino)”

  1. dida ghini ha detto:

    che brividi klarita 🙂

  2. L. ha detto:

    Il signor L. scommette che in certi prati tra Pulfero e Brischis o tra Lasiz e Tarcetta, là dove il bosco scivola verso l’alsfalto e l’asfalto scivola verso il fiume, si sente ancora lo schiaffo del pallone, le proteste di un piccolo difensore e il cigolio di una vecchia bicicletta.

  3. L. ha detto:

    Per non dire dei muri di pietra di Topolò 🙂


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